rosa_elefante (
rosa_elefante) wrote2010-10-25 05:03 pm
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Hearts' bounds [3/4]
Titolo: Hearts' bounds
Genere: angst, yaoi
Rating: PG-13
Pairing: Sakuraiba
Disclaimer: queste persone non mi appartengono, e anche se mi appartenessero li farei vivere felici e contenti >.<
Note: Dopo 'Non è una fanfiction', avevo deciso che non avrei mai più scritto roba che non avesse un lieto fine. Invece... ci sono ricascata T_T
E' divisa in 4 parti, due dal punto di vista di Sho, due da quello di Aiba. E le frasi che trovate all'inizio cono tratte dalla canzone 'Desire' di Baru e Yasu dei Kanjani8
Parti precedenti: Prima parte - Seconda parte
SHO
Dalla prima volta in cui ci siamo parlati, non hai fatto altro che rendere polvere tutti i miei schemi. Non sono mai riuscito a tradurre a parole i tuoi stati d’animo, trasformare in poche semplici frasi la tua vita.
Ma con te ho sempre sbagliato formula matematica. E forse è per questo che alla fine ne ho inventata una dal niente, che ho smesso di cercare di leggere dentro di te per costruirti addosso una nuova impalcatura. Qualcosa di più comodo da gestire, una maschera da guardare quando il tuo volto diveniva troppo mutevole e confuso.
In effetti, è ironico: ho speso anni ed energie per non farci considerare in modo superficiale, per dimostrare che anche gli idol avevano un cervello, per evitare che tutto venisse semplificato eccessivamente, e con te ho sempre cercato di fare il contrario. Di farti violenza. Mutilare i tuoi desideri, farti volare basso, forse per paura che cadendo ti saresti potuto spezzare. O forse per evitare che ti venisse voglia di fuggire. Però non te l’ho mai detto, non te l’ho mai chiesto. Di restare con me.
Le altre persone non facevano fatica a comprenderti, sei sempre stato un libro aperto per tutti; bastava guardarti per sapere a cosa stavi pensando, cosa provavi. Ci riusciva Jun, ci riusciva Nino. Persino Ohno, sempre perso nel suo mondo, riusciva a prevedere le tue mosse con facilità. Io, invece, mi sono sempre perso, come se cercassi un labirinto in una strada dritta.
E quando invece nel labirinto ci trovavamo davvero mi limitavo ad andare avanti senza badare alle curve, aprendomi il varco tra i cespugli con un coltello affilato e un’arma per tenere lontani i brutti pensieri.
Dopo che ti ebbi invitato per la prima volta a casa, ero convinto che tu mi odiassi, e che non ci sarebbe più stata l’occasione di rivolgerti la parola al di fuori del lavoro.
E in fondo mi sembrava anche logico: tu e io apparteniamo a mondi così diversi che anche solo ipotizzare la possibilità di un’amicizia mi appariva surreale, una barzelletta che non faceva granché ridere.
Con te è stato sempre diverso, e non credo che c’entrasse l’attrazione fisica. O almeno non soltanto. Nel nostro caso ha forse più senso parlare generalmente di chimica. C’era qualcosa che ci faceva gravitare uno verso l’altro e che ci spingeva a scontrarci sempre, per qualunque argomento. Idrogeno e ossigeno, incompatibili per nascita. Eppure indissolubilmente legati e necessari alla vita.
Se n’erano resi conto tutti, anche se io mi rifiutavo di parlarne. Del resto, cosa avrei potuto dire? Che anche se eri l’esatto opposto di me e del tipo di ragazzo da cui di solito mi sentivo attratto, non riuscivo a smettere di pensarti? Che neanche io capivo quale fosse il problema?
Forse dovremmo ringraziare Jun e la sua appendicite. O forse no.
Quel che è certo, è che non sarei dovuto andare a fargli visita in ospedale insieme a te. Noi due soli, per di più.
Me ne rendevo conto mentre stavo seduto alla scrivania con i libri sparsi davanti, e cercavo di non guardare l’orologio, di non sentire i ticchettii delle lancette che si muovevano verso il momento in cui avresti bussato alla porta di casa mia.
Mi alzai in piedi al primo suono del campanello, invece.
E il resto del pomeriggio passò così, disposto intorno a te e alle tue parole. Alla distanza che percepivo tra noi, all’irritazione che sentivo crescere a mano a mano che il tempo passava e il muro tra noi cresceva. Al senso di perdita che non riuscivo ad ammettere di star provando.
In realtà, non provavo grandi aspettative per quell’incontro. Anche mentre mi vestivo per uscire, non mi concedevo di pensare che quel pomeriggio mi avrebbe riservato qualcosa di diverso da parole di circostanza seguite da silenzi imbarazzati. Di certo non credevo che sarebbe potuto essere un inizio.
Ricordo l’ansia, più di ogni altra cosa. Una tensione continua nei muscoli delle spalle, un bruciore alla bocca dello stomaco: era l’ombra di un dolore, più che un vero e proprio fastidio.
Forse fu proprio quando ti vidi davanti alla porta di casa che il nodo che mi stringeva la gola si sciolse. Forse il mio pessimismo cronico mi aveva portato a pensare che mi avresti piantato in asso e saresti andato da Jun per conto tuo.
Non saprei dirlo.
L’unica cosa certa è che non appena vidi il primo accenno del tuo sorriso, stavo sorridendo anch’io.
“Ehi”
“Ciao”
Allora avevi un modo diverso di muoverti. Anche se passavi il tempo a studiare le migliori strategie per muovere il tuo corpo, non avevi ancora la sicurezza che hai adesso. La reale consapevolezza che gli altri ti osservassero. Quella convinzione che oggi aderisce alla tua pelle e che ti permette di entrare in un qualsiasi locale e di calamitare tutti gli sguardi. E non perché sei famoso.
Probabilmente eri cosciente della tua bellezza, ma non sapevi ancora che cosa essa potesse procurarti.
Del resto avevi solo vent’anni. Sembra incredibile pensare che eravamo così giovani quando tutto è iniziato. Fa quasi ridere.
O piangere, forse.
Perché è facile perdonarsi certi sbagli, quando si manda indietro la memoria e si cercano soluzioni alternative. È facile perdonare tutte le verità soffocate. Ma nessun perdono diminuisce la consapevolezza del distacco. E rendersi conto che eravamo troppo piccoli per non sbagliare, troppo piccoli per sperare di restare insieme per sempre, non cancella i nostri errori. Né cambia il fatto che non abbiamo resistito per sempre.
Però, non c’era alternativa. Non c’è mai stata.
Anche mentre voltavo la testa di lato per allontanare il rossore che mi minacciava e smettere di fissare il tuo sorriso, mentre spiavo con la coda dell’occhio il movimento delle spalle sotto la giacca, mentre ti guardavo scostarti una ciocca di capelli dal volto, sapevo che non potevo più tornare indietro.
Non so cosa sarebbe successo se non avessimo avuto qualche argomento per superare l’imbarazzo. Forse il silenzio sarebbe stato ancora più glaciale, il tuo sorriso meno convinto. E io avrei iniziato a considerare l’idea di togliermi di torno.
O magari avremmo fatto prima ciò che avremmo comunque fatto dopo. Era solo una questione di un paio d’ore, d’altronde.
Ma c’era Jun in un letto, qualche piano sopra di noi, che si aspettava una visita dai suoi compagni.
“Che succede?”
Scrollata di spalle.
“Non mi piacciono molto gli ospedali. Mi fanno ricordare”
“Questa volta è diverso, però”
“Sì...”
“Jun non ha nulla di grave, non devi preoccuparti”
Non so se fu quella rassicurazione a calmarti, o se il tuo sistema nervoso non era programmato per stare in tensione per tanto tempo. È sempre stata la tua fortuna, questa, o la tua debolezza, se la si guarda da un altro punto di vista. Sai socializzare con chiunque, convincere anche la persona più ritrosa a rilassare i nervi e cominciare a parlare. Il successo forse non è immediato con tutti, a volte anche tu devi faticare, ma il risultato finale è sempre stato una resa.
Io ti ascoltavo parlare della tua famiglia, di episodi della tua infanzia, senza neanche accorgermi che il disagio era evaporato. Anche l’aria era cambiata. Le infermiere ci guardavano, mentre passavamo, e tu sorridevi loro, ma la sensazione era che fosse una sorta di riflesso incondizionato, perché continuavi a parlare e non sembravi prestare attenzione a tutto ciò che non riguardasse il tuo discorso.
“Credo di non esserci molto abituato. Poi quel giorno avevo bevuto birra, e la birra, per me, è ancora peggio. Cioè, mi dà una sbronza strana...”
Palmo contro la porta, nuovo reparto. Svolta a destra.
“Di solito è il mondo che ondeggia, ma con la birra è come se ondeggiassi io. Non so perché. Mi ha sempre fatto...”
Dovrei considerare un miracolo il fatto che non ci perdemmo, considerando che tu non avevi la minima idea di dove andare e che il mio senso dell’orientamento era troppo sbilanciato verso qualunque direzione decidesse di prendere il tuo corpo per prestare attenzione a quale stanza dovessimo cercare.
Non mi resi conto di quanto tu odiassi gli ospedali, di quanto fossi preoccupato per Jun e di quanto ciò che ti era successo di avesse segnato, fino a quando non mi trovai a guardarti seduto sulla sedia di fianco al suo letto, quasi rannicchiato su te stesso per sembrare meno alto, la voce bassa mentre gli chiedevi se era sicuro di stare bene.
I lineamenti del volto seri. Nel tuo sguardo c’era una preoccupazione sincera che non si poteva né fingere, né esagerare. E mi colpì come un pugno allo stomaco la consapevolezza che tu eri lì, con me. Da anni, eri parte della mia vita, anche senza il mio consenso.
Ricordo di essere rimasto a lungo a guardarti, sulla scia di quella riflessione.
I capelli lisci sulla nuca, le linee del corpo visibile sotto la maglietta di cotone. Studiavo il rilievo dei tuoi zigomi, il taglio dei tuoi occhi e il profilo della mascella. Ti ascoltavo parlare.
Per tutto il tempo che restammo lì, credo di non aver detto più di dieci parole.
Jun mi lanciava sguardi silenziosi, a volte perplessi, a volte divertiti, mentre tu non ti voltavi nemmeno per vedere se ero ancora lì.
È strano. Avrei dovuto sentirmi ignorato.
Invece avevo la sensazione che tu non ti perdessi ogni mio movimento.
E quando uscimmo dalla stanza di Jun e percorremmo a ritroso la strada che lì ci aveva portato, non mi chiesi da cosa nascesse il nuovo silenzio che aveva trovato spazio tra noi. Per una volta, non pensai alle possibilità alternative. Ma lasciai che la mia andatura si modificasse per adattarsi alla tua. E quando, fuori dall’ospedale, trovai il coraggio di guardarti, non mi sorpresi nel vederti sorridere.
“Credo che tra poco pioverà”
Un’occhiata al cielo: nuvole scure e gonfie.
Vento gelido, aria elettrica.
“Così pare. Dovremmo sbrigarci”
“Già”
Silenzio.
“Quanto ci abbiamo messo da casa tua?”
“Venti minuti, credo”
Sorriso più cauto, adesso, mentre inizia a piovere violentemente, all’improvviso.
“Casa mia è a due minuti. Possiamo fermarci da me, se vuoi. Bere qualcosa”
“Fino a quando non smette di piovere”
Sorriso di risposta, evidente.
“Va bene”
Soltanto così, va bene.
Come se non ci fosse altro dietro. Come se non fosse ciò stavo aspettando, che desideravo da sempre. Che speravo.
Non posso dire che non sapessi dove ci avrebbe condotto la strada che stavamo imboccando. Ma non potevo prevedere questo finale, né che amarti mi avrebbe fatto così male. Non potevo saperlo. E di sicuro non lo sapevi nemmeno tu.
Ma anche se avessi avuto in mano tutti gli elementi, so che avrei risposto nello stesso identico modo.
Perché di tutti i rimpianti che costellano la mia vita, quella è forse l’unica decisione di cui la pioggia non è ancora riuscita a lavare via il sapore.
E vorrei poter credere che anche per te sia lo stesso, che mi faresti ancora quella domanda, che ti forzeresti ancora nella mia vita. Vorrei poter credere che la nostra storia non sarebbe la prima cosa che cancelleresti.
Ma è difficile illudersi quando il ricordo dei tuoi occhi mi brucia davanti, quando le tue parole risuonano nella mia mente e mi colpiscono come graffi. È difficile sperare quando il silenzio è così assordante.
Quando ogni giorno il tuo sguardo è indifferente, la voce arriva solo con il ronzio della telecamera in sottofondo. Quando il tuo respiro nella cornetta del telefono arriva da così lontano, e non c’è il tuo corpo davanti da raggiungere. Solo attesa. E poi, il suono secco di quando si interrompe la conversazione. Il movimento della mano che si abbassa per abbassare meccanicamente il ricevitore.
Mentre fuori dalla finestra la pioggia cade fitta come quel giorno. Ma questa volta, non ci sono più strade da percorrere.
Né risposta da dare.
Genere: angst, yaoi
Rating: PG-13
Pairing: Sakuraiba
Disclaimer: queste persone non mi appartengono, e anche se mi appartenessero li farei vivere felici e contenti >.<
Note: Dopo 'Non è una fanfiction', avevo deciso che non avrei mai più scritto roba che non avesse un lieto fine. Invece... ci sono ricascata T_T
E' divisa in 4 parti, due dal punto di vista di Sho, due da quello di Aiba. E le frasi che trovate all'inizio cono tratte dalla canzone 'Desire' di Baru e Yasu dei Kanjani8
Parti precedenti: Prima parte - Seconda parte
“Itsumo sou anata wo soba ni iru no? Inai no?
Watashi dake mou kowaresou nano...”
“It’s always like this, are you close to me? Or are you not?
I’m the only one that’s about to break...”
Watashi dake mou kowaresou nano...”
“It’s always like this, are you close to me? Or are you not?
I’m the only one that’s about to break...”
SHO
Dalla prima volta in cui ci siamo parlati, non hai fatto altro che rendere polvere tutti i miei schemi. Non sono mai riuscito a tradurre a parole i tuoi stati d’animo, trasformare in poche semplici frasi la tua vita.
Ma con te ho sempre sbagliato formula matematica. E forse è per questo che alla fine ne ho inventata una dal niente, che ho smesso di cercare di leggere dentro di te per costruirti addosso una nuova impalcatura. Qualcosa di più comodo da gestire, una maschera da guardare quando il tuo volto diveniva troppo mutevole e confuso.
In effetti, è ironico: ho speso anni ed energie per non farci considerare in modo superficiale, per dimostrare che anche gli idol avevano un cervello, per evitare che tutto venisse semplificato eccessivamente, e con te ho sempre cercato di fare il contrario. Di farti violenza. Mutilare i tuoi desideri, farti volare basso, forse per paura che cadendo ti saresti potuto spezzare. O forse per evitare che ti venisse voglia di fuggire. Però non te l’ho mai detto, non te l’ho mai chiesto. Di restare con me.
Le altre persone non facevano fatica a comprenderti, sei sempre stato un libro aperto per tutti; bastava guardarti per sapere a cosa stavi pensando, cosa provavi. Ci riusciva Jun, ci riusciva Nino. Persino Ohno, sempre perso nel suo mondo, riusciva a prevedere le tue mosse con facilità. Io, invece, mi sono sempre perso, come se cercassi un labirinto in una strada dritta.
E quando invece nel labirinto ci trovavamo davvero mi limitavo ad andare avanti senza badare alle curve, aprendomi il varco tra i cespugli con un coltello affilato e un’arma per tenere lontani i brutti pensieri.
Dopo che ti ebbi invitato per la prima volta a casa, ero convinto che tu mi odiassi, e che non ci sarebbe più stata l’occasione di rivolgerti la parola al di fuori del lavoro.
E in fondo mi sembrava anche logico: tu e io apparteniamo a mondi così diversi che anche solo ipotizzare la possibilità di un’amicizia mi appariva surreale, una barzelletta che non faceva granché ridere.
Con te è stato sempre diverso, e non credo che c’entrasse l’attrazione fisica. O almeno non soltanto. Nel nostro caso ha forse più senso parlare generalmente di chimica. C’era qualcosa che ci faceva gravitare uno verso l’altro e che ci spingeva a scontrarci sempre, per qualunque argomento. Idrogeno e ossigeno, incompatibili per nascita. Eppure indissolubilmente legati e necessari alla vita.
Se n’erano resi conto tutti, anche se io mi rifiutavo di parlarne. Del resto, cosa avrei potuto dire? Che anche se eri l’esatto opposto di me e del tipo di ragazzo da cui di solito mi sentivo attratto, non riuscivo a smettere di pensarti? Che neanche io capivo quale fosse il problema?
Forse dovremmo ringraziare Jun e la sua appendicite. O forse no.
Quel che è certo, è che non sarei dovuto andare a fargli visita in ospedale insieme a te. Noi due soli, per di più.
Me ne rendevo conto mentre stavo seduto alla scrivania con i libri sparsi davanti, e cercavo di non guardare l’orologio, di non sentire i ticchettii delle lancette che si muovevano verso il momento in cui avresti bussato alla porta di casa mia.
Mi alzai in piedi al primo suono del campanello, invece.
E il resto del pomeriggio passò così, disposto intorno a te e alle tue parole. Alla distanza che percepivo tra noi, all’irritazione che sentivo crescere a mano a mano che il tempo passava e il muro tra noi cresceva. Al senso di perdita che non riuscivo ad ammettere di star provando.
In realtà, non provavo grandi aspettative per quell’incontro. Anche mentre mi vestivo per uscire, non mi concedevo di pensare che quel pomeriggio mi avrebbe riservato qualcosa di diverso da parole di circostanza seguite da silenzi imbarazzati. Di certo non credevo che sarebbe potuto essere un inizio.
Ricordo l’ansia, più di ogni altra cosa. Una tensione continua nei muscoli delle spalle, un bruciore alla bocca dello stomaco: era l’ombra di un dolore, più che un vero e proprio fastidio.
Forse fu proprio quando ti vidi davanti alla porta di casa che il nodo che mi stringeva la gola si sciolse. Forse il mio pessimismo cronico mi aveva portato a pensare che mi avresti piantato in asso e saresti andato da Jun per conto tuo.
Non saprei dirlo.
L’unica cosa certa è che non appena vidi il primo accenno del tuo sorriso, stavo sorridendo anch’io.
“Ehi”
“Ciao”
Allora avevi un modo diverso di muoverti. Anche se passavi il tempo a studiare le migliori strategie per muovere il tuo corpo, non avevi ancora la sicurezza che hai adesso. La reale consapevolezza che gli altri ti osservassero. Quella convinzione che oggi aderisce alla tua pelle e che ti permette di entrare in un qualsiasi locale e di calamitare tutti gli sguardi. E non perché sei famoso.
Probabilmente eri cosciente della tua bellezza, ma non sapevi ancora che cosa essa potesse procurarti.
Del resto avevi solo vent’anni. Sembra incredibile pensare che eravamo così giovani quando tutto è iniziato. Fa quasi ridere.
O piangere, forse.
Perché è facile perdonarsi certi sbagli, quando si manda indietro la memoria e si cercano soluzioni alternative. È facile perdonare tutte le verità soffocate. Ma nessun perdono diminuisce la consapevolezza del distacco. E rendersi conto che eravamo troppo piccoli per non sbagliare, troppo piccoli per sperare di restare insieme per sempre, non cancella i nostri errori. Né cambia il fatto che non abbiamo resistito per sempre.
Però, non c’era alternativa. Non c’è mai stata.
Anche mentre voltavo la testa di lato per allontanare il rossore che mi minacciava e smettere di fissare il tuo sorriso, mentre spiavo con la coda dell’occhio il movimento delle spalle sotto la giacca, mentre ti guardavo scostarti una ciocca di capelli dal volto, sapevo che non potevo più tornare indietro.
Non so cosa sarebbe successo se non avessimo avuto qualche argomento per superare l’imbarazzo. Forse il silenzio sarebbe stato ancora più glaciale, il tuo sorriso meno convinto. E io avrei iniziato a considerare l’idea di togliermi di torno.
O magari avremmo fatto prima ciò che avremmo comunque fatto dopo. Era solo una questione di un paio d’ore, d’altronde.
Ma c’era Jun in un letto, qualche piano sopra di noi, che si aspettava una visita dai suoi compagni.
“Che succede?”
Scrollata di spalle.
“Non mi piacciono molto gli ospedali. Mi fanno ricordare”
“Questa volta è diverso, però”
“Sì...”
“Jun non ha nulla di grave, non devi preoccuparti”
Non so se fu quella rassicurazione a calmarti, o se il tuo sistema nervoso non era programmato per stare in tensione per tanto tempo. È sempre stata la tua fortuna, questa, o la tua debolezza, se la si guarda da un altro punto di vista. Sai socializzare con chiunque, convincere anche la persona più ritrosa a rilassare i nervi e cominciare a parlare. Il successo forse non è immediato con tutti, a volte anche tu devi faticare, ma il risultato finale è sempre stato una resa.
Io ti ascoltavo parlare della tua famiglia, di episodi della tua infanzia, senza neanche accorgermi che il disagio era evaporato. Anche l’aria era cambiata. Le infermiere ci guardavano, mentre passavamo, e tu sorridevi loro, ma la sensazione era che fosse una sorta di riflesso incondizionato, perché continuavi a parlare e non sembravi prestare attenzione a tutto ciò che non riguardasse il tuo discorso.
“Credo di non esserci molto abituato. Poi quel giorno avevo bevuto birra, e la birra, per me, è ancora peggio. Cioè, mi dà una sbronza strana...”
Palmo contro la porta, nuovo reparto. Svolta a destra.
“Di solito è il mondo che ondeggia, ma con la birra è come se ondeggiassi io. Non so perché. Mi ha sempre fatto...”
Dovrei considerare un miracolo il fatto che non ci perdemmo, considerando che tu non avevi la minima idea di dove andare e che il mio senso dell’orientamento era troppo sbilanciato verso qualunque direzione decidesse di prendere il tuo corpo per prestare attenzione a quale stanza dovessimo cercare.
Non mi resi conto di quanto tu odiassi gli ospedali, di quanto fossi preoccupato per Jun e di quanto ciò che ti era successo di avesse segnato, fino a quando non mi trovai a guardarti seduto sulla sedia di fianco al suo letto, quasi rannicchiato su te stesso per sembrare meno alto, la voce bassa mentre gli chiedevi se era sicuro di stare bene.
I lineamenti del volto seri. Nel tuo sguardo c’era una preoccupazione sincera che non si poteva né fingere, né esagerare. E mi colpì come un pugno allo stomaco la consapevolezza che tu eri lì, con me. Da anni, eri parte della mia vita, anche senza il mio consenso.
Ricordo di essere rimasto a lungo a guardarti, sulla scia di quella riflessione.
I capelli lisci sulla nuca, le linee del corpo visibile sotto la maglietta di cotone. Studiavo il rilievo dei tuoi zigomi, il taglio dei tuoi occhi e il profilo della mascella. Ti ascoltavo parlare.
Per tutto il tempo che restammo lì, credo di non aver detto più di dieci parole.
Jun mi lanciava sguardi silenziosi, a volte perplessi, a volte divertiti, mentre tu non ti voltavi nemmeno per vedere se ero ancora lì.
È strano. Avrei dovuto sentirmi ignorato.
Invece avevo la sensazione che tu non ti perdessi ogni mio movimento.
E quando uscimmo dalla stanza di Jun e percorremmo a ritroso la strada che lì ci aveva portato, non mi chiesi da cosa nascesse il nuovo silenzio che aveva trovato spazio tra noi. Per una volta, non pensai alle possibilità alternative. Ma lasciai che la mia andatura si modificasse per adattarsi alla tua. E quando, fuori dall’ospedale, trovai il coraggio di guardarti, non mi sorpresi nel vederti sorridere.
“Credo che tra poco pioverà”
Un’occhiata al cielo: nuvole scure e gonfie.
Vento gelido, aria elettrica.
“Così pare. Dovremmo sbrigarci”
“Già”
Silenzio.
“Quanto ci abbiamo messo da casa tua?”
“Venti minuti, credo”
Sorriso più cauto, adesso, mentre inizia a piovere violentemente, all’improvviso.
“Casa mia è a due minuti. Possiamo fermarci da me, se vuoi. Bere qualcosa”
“Fino a quando non smette di piovere”
Sorriso di risposta, evidente.
“Va bene”
Soltanto così, va bene.
Come se non ci fosse altro dietro. Come se non fosse ciò stavo aspettando, che desideravo da sempre. Che speravo.
Non posso dire che non sapessi dove ci avrebbe condotto la strada che stavamo imboccando. Ma non potevo prevedere questo finale, né che amarti mi avrebbe fatto così male. Non potevo saperlo. E di sicuro non lo sapevi nemmeno tu.
Ma anche se avessi avuto in mano tutti gli elementi, so che avrei risposto nello stesso identico modo.
Perché di tutti i rimpianti che costellano la mia vita, quella è forse l’unica decisione di cui la pioggia non è ancora riuscita a lavare via il sapore.
E vorrei poter credere che anche per te sia lo stesso, che mi faresti ancora quella domanda, che ti forzeresti ancora nella mia vita. Vorrei poter credere che la nostra storia non sarebbe la prima cosa che cancelleresti.
Ma è difficile illudersi quando il ricordo dei tuoi occhi mi brucia davanti, quando le tue parole risuonano nella mia mente e mi colpiscono come graffi. È difficile sperare quando il silenzio è così assordante.
Quando ogni giorno il tuo sguardo è indifferente, la voce arriva solo con il ronzio della telecamera in sottofondo. Quando il tuo respiro nella cornetta del telefono arriva da così lontano, e non c’è il tuo corpo davanti da raggiungere. Solo attesa. E poi, il suono secco di quando si interrompe la conversazione. Il movimento della mano che si abbassa per abbassare meccanicamente il ricevitore.
Mentre fuori dalla finestra la pioggia cade fitta come quel giorno. Ma questa volta, non ci sono più strade da percorrere.
Né risposta da dare.