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rosa_elefante ([personal profile] rosa_elefante) wrote2011-01-17 05:17 pm

Wounds that can be healed [2/3]

Titolo: Wounds that can be healed
Autore: [livejournal.com profile] rosa_elefante 
Gruppo: Arashi
Personaggi: Aiba Masaki, Sho Sakurai
Pairing: Sakuraiba
Genere: yaoi, angst
Rating:  PG-13
Avvertimenti: sequel di Hearts' Bounds
Riassunto: con Hearts' Bounds, sono stati esaminati i pensieri di Sho e Aiba sul loro rapporto, ormai finito. Qui si torna nel presente, per vedere come i due vivono questa rottura.
Note: è divisa in tre parti: una per Sho, una per Aiba, e una per entrambi. Le frasi all'inizio di ogni parte sono tratte dalla canzone Aitakute Aitakute di Nishino Kana
Disclaimer: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo.
Parti precedenti:  QUI

“Baby I know
Kimi wa mou watashi no mono ja nai koto kurai
Demo doushitemo kimi ja nakya dame
Da kara
You are the one”


“Baby I know
That you’re not mine anymore
But I can’t help it, you are the one for me
You are the one”
AIBA

Tokyo: le sette del pomeriggio.
Aiba richiude il portone con una spallata e a passi rapidi percorre il corridoio del palazzo, sganciando distrattamente i bottoni del cappotto.
Inizia sempre a spogliarsi prima di arrivare in casa: è un'abitudine che non ha ancora perso, da quando era ragazzo.
A volte d'estate, quando fa molto caldo, è capace di arrivare al primo pianerottolo che si è già tolto la camicia.
Sho lo sfotteva abitualmente, per questo.
E per una quantità di altre cose - a dire il vero.
Scherzare sulle reciproche stravaganze era occorrenza piuttosto comune, fra loro: un modo per esorcizzare le difficoltà quotidiane di una convivenza tanto lunga, forse.
O forse solo complicità.
Gioco da amanti.
Ma a volte sono proprio cose del genere, quelle che mancano di più: cose apparentemente poco importanti, spesso scontate. Futili.
Come la copia del New York Times che Sho si faceva spedire tutti i giorni per allenarsi con l’inglese e che anche oggi Aiba raccoglie dal gradino, passando.
Perché le persone se ne vanno, ma si lasciano dietro oggetti. Abitudini.
E ti sembra di vederla ovunque, a volte, l'impronta del loro passaggio.
Anche quando non vorresti vedere nulla.
Anche quando ti sembra quasi di avercela fatta, a riprendere in mano la tua vita.
Basta un niente e il vuoto dell'assenza torna a scavare lo stomaco. Un tarlo subdolo, vorace.
La follia di perdersi a fantasticare che aprendo la porta sia ancora possibile trovare il suo cappotto, sull'attaccapanni. I suoi posacenere, sparsi per la casa. E il suo corpo, abbandonato sulla poltrona.
Il cuore accelera lento mentre Aiba riavvolge il nastro di un film già visto centinaia di volte - imparato a memoria: lui che si piega di fronte alle sue ginocchia, Sho che solleva lentamente gli occhi.
Gli sguardi che si incontrano. Un accenno di sorriso.
Il palmo della mano premuto sull'inguine - la forma del suo sesso a tendere la stoffa, sotto le dita. E la sensazione pazzesca di sentirselo crescere in bocca, dopo.
La lentezza che si fa urgenza, e il gusto del suo piacere.
Del suo silenzio.
Certe immagini hanno il pessimo vizio di pungere la pelle nei momenti meno opportuni, come minuscoli spilli affondati nella schiena.
Distogliere la mente non serve a nulla.
Non è cosa semplice da gestire, la nostalgia.
-Fanculo -sibila fra i denti.

A volte abbassi la guardia per stanchezza.
Per sfinimento, o per semplice disattenzione.
A volte, quando ti concedi di svestire per un attimo l'armatura solita e ti fermi a guardare che colore abbia davvero la tua pelle - e quale forma le ossa disegnino sui polsi - anche lo squillo del telefono può penetrare la carne.
È sempre stato troppo facile, lasciarsi sorprendere. Troppo.
Sono passati mesi, eppure Aiba non si è ancora abituato al vuoto d'aria che esplode nello stomaco quando la voce di Sho pronuncia il suo nome, nella cornetta, e il sorriso muore di colpo sulle labbra.
È come una folata di vento che mischia le carte, che confonde e stordisce.
Come precipitare in volo, come sentire il terreno che ti inghiotte.
Rompersi.
Ed affrettarsi a ricomporre i pezzi, dopo, con la frenesia disperata di chi deve ad ogni costo tenersi in piedi. Per orgoglio, principalmente.
Come è sempre stato.
L'unica preoccupazione, in quei momenti, non sembra essere quella di accertare l'entità del danno - valutare quanto sangue sia andato perso nell'impatto, o contare le ossa rotte.
Le ferite.
La priorità diventa quella di soffocare il silenzio, perché non possa parlare. Perché l'istante non si prolunghi oltre il limite dell'imbarazzo, e l'altro non possa capire. Vedere.
Le carte sono di nuovo in tavola, improvvisamente.
La partita si sta già svolgendo, e non c'è tempo per declinare l'invito: come sempre spetta a te, l'onere della prima mossa.
Gioco di strategia - nervi saldi.
Il viso spogliato di ogni espressione e lo sguardo che deve rimanere perfettamente fermo, quando gli occhi si incrociano.
Scegliere il momento del rilancio potrebbe essere questione di guadagnarsi o meno la possibilità di un'altra mano e scoprire le carte è un azzardo che va valutato con tutta l'attenzione del caso: basterebbe un unico passo falso perché le pile di fishes crollino sul tavolo come macerie.
E Aiba l'ha sempre saputo: lo scopo di quel confronto non è vincere, ma semplicemente restare in gioco. Drogarsi di frustrazione e di adrenalina fino a quando un altro giro di carte diventa la sola cosa a cui sai pensare.
Coazione a ripetere.
Follia, forse.
Ma sette anni con Sho sono stati principalmente questo: una sfida interminabile. Una lotta impari, con armi intagliate nella pietra e trincee precarie arrangiate nella sabbia.
Ci sarebbe da ridere, a pensarci.
Perché neanche i bambini in riva al mare costruiscono qualcosa di tanto instabile, eppure quelle barriere di terra bagnata sono sempre lì: vestigia antiche di una fortificazione che l'altro neanche ha mai notato.
Non è sulla spiaggia che Sho muove i propri passi - i suoi terreni sono sentieri complicati.
Curve e salite e rovi.
E Masaki è sempre stato da solo a guardare i tramonti sull'oceano: a fotografarli - fissarli su carta lucida - nella speranza di renderli meno patetici. Più interessanti.
A farli colare di sangue.
Sangue.
Sono stati un lento stillicidio, quei sette anni.
Una continua trasfusione di linfa vitale, nella speranza di riuscire un giorno a cambiare pelle per non sembrare troppo giovane.
Ed è stato un massacro.
Ogni volta che parlava per ore - ogni volta che Sho annuiva distrattamente, sforzandosi di dargli attenzione - era un massacro.
Era un massacro quando ogni provocazione si scontrava con i suoi silenzi, quando ogni isteria naufragava nella calma perfettamente razionale di un sopracciglio sollevato.
Ci sono stati giorni che avrebbe potuto prendere un coltello, Aiba, e troncarsi le dita una ad una solo per costringere Sho a sollevare la testa dai libri, dai suoi inutili plichi di fogli. Per sentire le sue mani strette sui polsi - per vedere la sua paura.
Ma sarebbe stata pena.
Soltanto pena.
Prendersi cura di un bambino instabile per dargli la possibilità di diventare un adulto integrato - la sua missione. Il compito al quale ha votato la vita.
La passione non c'entra nulla, con tutto questo.
La passione segue strade diverse, e con Sho va programmata. Va costruita giorno dopo giorno, fingendo sicurezza anche mentre tutto crolla. Mentre ingoi il bisogno di chiedergli forza. Di sentirgli ripetere il tuo nome.
Mentre muori dentro di lui e vorresti piangere, e sai che non puoi.
Non puoi.
Diventeresti di nuovo il bambino da salvare, altrimenti. Un grumo di passioni da sciogliere e ordinare - lo stimolo più grande.
Ed il tuo essere uomo che agonizza ai margini.
L'abiura definitiva di te stesso.
Nessuna alternativa.
Eppure Sho è un veleno potente - continua ad agire nel sangue anche adesso.
La sua voce scivola calma, nella cornetta del telefono, e non esiste più nulla: non l'aria che riempiva i polmoni, non l'entusiasmo di lasciarsi andare alla vita. Non la batteria, il sollievo di non dover misurare parole e gesti.
Niente.
Solo la necessità di restare in gioco, ancora una volta. E la frustrazione che sembra scavare la carne - la rabbia. La voglia di urlargli addosso per strappargliela finalmente, una qualche reazione.
Ma non sarebbe Mi manchi. Non sarebbe Ho bisogno di te.
Si vedrebbe forse rivolgere un pacato: Tutto bene, Masaki?
E la sua attenzione, i suoi consigli. Il suo sostegno.
Tutta merda.
La nausea che sale in gola - che ti riporta all'inizio. Sette anni fa. Quando davvero, eri ancora un bambino. Quando avresti potuto avere chiunque, e non vedevi che lui.
Perché non importava quante persone ti cercassero, per il tuo aspetto o per la tua fama.
Non importava quanto ti sentissi bene con gli altri - quanto fossi libero.
Sho non era piacevole, o granché simpatico. Era bello, questo sì.
Eppure, era il motore di tutto.
Era l'esaltazione indescrivibile di sentirlo eccitare sotto le tue mani - nella tua bocca - con la consapevolezza ubriacante che il suo piacere era per te. Che ce l'avevi fatta.
Che eri perfetto, che il mondo era perfetto.
Che era perfetto lui.
Stronzate.
Stronzate come quelle che racconti adesso, mentre moduli la voce sulle sue stesse tonalità controllate e assicuri che tutto procede benissimo. Che hai già messo nelle scatole le sue cose, quelle rimaste, e che se vuole puoi spedirgliele anche domani. Che anzi, ti serve spazio.
Che ti sei comprato una batteria, che vuoi metterla nel suo studio.
Stronzate.
Perché ti accorgi solo adesso che non ci hai mai neanche provato, a liberarti delle sue cose.
Non ci hai neanche pensato.
Ti ci muovi in mezzo ogni giorno, come un sonnambulo che conosca i percorsi a memoria.
E la cosa tragica è che non fa neanche male.
Semplicemente, quegli oggetti sono parte di te. Sono riflessi di quel che sei - come l'assurda recita che stai inscenando al telefono. Come la rabbia di ritrovarti a doverla ripetere, ancora una volta. Come il vuoto allo stomaco che di nuovo si alimenta della pacatezza della sua voce.
Del suo controllo.

Il Fato sa essere molto spiritoso. O molto bastardo.
Aiba era convinto, dopo due mesi, di essere riuscito e ritrovare le redini della sua vita senza Sho.
Di essere ormai libero.
Curiosamente, si rende conto di non esserlo durante un tour. Ovvero ciò che ama di più dopo gli Arashi.
Durante le prove generali, precisamente.
Lui lo dice più volte, che è stanco, che non si sente bene. Che preferisce entrare a riposarsi piuttosto che stare a guardare il solo di Sho.
Ci prova.
Ma resta lì, maledicendo tutto e tutti.
Poi gli occhi si fissano sul palco e, di colpo, tutto il resto smette semplicemente di esistere.
La sensazione - nettissima - di riconoscere la forma dei fianchi che si muovono in controluce e la mente che tarda ad elaborare. Il sangue che si blocca.
Poi, improvvisa, un'istantanea.
Un corpo. Il suo.
Aiba raddrizza la schiena, mentre il sangue crolla ai piedi senza alcuna ragione. Senza che lui riesca più a riconoscere i confini di quel luogo, e del proprio presente. Del momento.
Un passo dopo l'altro, Sho avanza sul palco.
Lentamente.
Come un'onda, come il destino. Come quelle cose che sai di non poterti permettere e proprio per questo ti ritrovi a desiderare, con l'esaltazione suicida dei gesti più insensati.
Come l'esplodere improvviso della chitarra elettrica.
Come la vibrazione del basso.
Lui cammina piano - fasciato in un nero che è notte, ed è inchiostro - ed a Masaki sembra di sentirselo muovere sulla pelle. Potrebbe essere ispirazione. O eccitazione.
O ancora altro - il ricordo di un profumo impresso nella mente, la curva imbronciata della sua bocca. Quegli occhi misteriosi - remoti. Selvaggi.
E quando serra il pugno sull'asta del microfono, sollevando lo sguardo da dietro le ciglia, la vertigine è talmente violenta che Aiba si sente quasi morire.
Non è neanche più erotismo.
Non è nulla di già sperimentato, né di conosciuto: è il ribaltamento assoluto di ogni prospettiva, la traccia del presente che si disegna seguendo la curva dei suoi fianchi.
La sua voce.
Un brivido.
Aiba si bagna le labbra, e mentre le parole scivolano sui percorsi della musica sente - con la lucidità cristallina che solo la follia sa darti - che un periodo della sua vita si chiude lì. Sulla tonalità di quella voce.
Dopo, qualunque cosa accada, lui non sarà più la stessa persona che è ora.
Ma di nuovo il ragazzo di vent’anni innamorato follemente del suo compagno di lavoro.
Perché Sho scava il suo corpo, ancora, lo piega come fosse un arco: perché c'è un senso di fatalità che quasi spaventa, nell'aria, e ci sono sussurri.
Le sue parole immaginate sulla pelle.
Il tempo collassa in versi antichi come rocce, i movimenti di lui accarezzano ferite dimenticate, e quando la musica si spegne Aiba non saprebbe dire se sia trascorsa un'ora o una notte intera.
Un'intera vita.
E prende una decisione.

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