rosa_elefante (
rosa_elefante) wrote2010-10-02 02:08 pm
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Hearts' bounds [2/4]
Titolo: Hearts' bounds
Genere: angst, yaoi
Rating: PG-13
Pairing: Sakuraiba
Disclaimer: queste persone non mi appartengono, e anche se mi appartenessero li farei vivere felici e contenti >.<
Note: Dopo 'Non è una fanfiction', avevo deciso che non avrei mai più scritto roba che non avesse un lieto fine. Invece... ci sono ricascata T_T
E' divisa in 4 parti, due dal punto di vista di Sho, due da quello di Aiba. E le frasi che trovate all'inizio cono tratte dalla canzone 'Desire' di Baru e Yasu dei Kanjani8
Parti precedenti: Prima parte
AIBA
La notte dopo le prime prove di gruppo con gli Arashi, non riuscii a dormire.
Sentivo la pioggia picchiare sui vetri della finestra e guardavo la luce bluastra che si addensava tra le pieghe delle lenzuola. Guardavo le mie mani: i pugni aperti.
Non mi ero mai sentito così.
Durante le prove, quel giorno, avevo cercato semplicemente di non pensare. A diciassette anni distrarsi non è particolarmente difficile, basta concentrare le energie sui propri movimenti, muoversi più velocemente. Con l’illusione di poter lasciare indietro tutto il resto.
Mi ero infilato direttamente sotto la doccia, quando ero rientrato negli spogliatoi, e mentre l’acqua mi scorreva sul viso me ne resi conto chiaramente, che quella fretta era per non dover sentire, per non dover vedere.
Non riuscivo più ad orientarmi.
Non riuscivo a capire per quale ragione i corpi dei miei compagni mi facessero improvvisamente un effetto così strano. Mi ritrovavo a guardarli in maniera diversa, come se li vedessi per la prima volta.
E per la prima volta gli occhi indugiavano sulle curve dei muscoli acerbi, sulle scie umide che le gocce di sudore disegnavano sulle spalle, sulle vene delle braccia.
Vorrei poterti dire che l’attrazione per te fu consapevole, in quei primi giorni. Ma in realtà fu un terremoto sotterraneo, l’ulteriore sconvolgimento di un terreno già minato da ciò che ci stava succedendo intorno. Già troppo instabile.
Forse se quelli fossero stati giorni normali –se gli Arashi non fossero mai esistiti, se non fossimo stati costretti a vederci quasi ogni giorno, per tanti anni – mi sarei limitato a registrare il tuo sguardo e a immaginarlo nel bianco umido delle lenzuola. Magari per qualche minuto, il tempo che concedevo di solito alle mie fantasie.
Ma poi avrei continuato la mia vita normale. E tu saresti sbiadito nello sfondo, Sho.
A volte mi domando come io abbia fatto ad aspettare anni prima di vederti trasformare in fuoco, quando già il tuo ingresso nella mia vita è stato come un flusso d’acqua. Acqua che filtra dalle fessure, che scivola sulle cose.
La mia riluttanza ad avvicinarti, inizialmente, derivava essenzialmente dalla paura della superficie piatta del mare. E dell’erosione lenta che può scavare l’acqua. Del nulla in cui trasforma anche la roccia.
Ricordo che fu quella, la sensazione più nitida dei primi giorni: annegare.
Annaspare per restare a galla, distogliere lo sguardo da quello frenetico della gente intorno a me per non richiamare alla mente la calma del tuo.
Ti pensavo per contrasto, paradossalmente.
Perché eri così diverso dalle persone che mi circondavano, che la loro presenza ti evocava, quasi.
I corpi scolpiti degli altri uomini. E il tuo affondato in una maglia troppo grande la prima volta che ci siamo visti.
Le grida assordanti della gente. E il tuo parlare a voce bassa, le tue pause di silenzio.
La sensazione che avrei potuto chiederti qualunque cosa, e che a qualunque cosa avresti saputo rispondere.
Allora non potevo certo immaginare che sarebbe stato proprio per quelle tue risposte fottutamente coerenti, che ti avrei odiato tanto. Non potevo sapere che avrei odiato tanto me stesso per tutte quelle domande ingenue.
E non potevo sapere che, di nascosto, avrei fotografato tante volte le tue mani, solo per poterne stracciare le stampe. Per sentirmi più adulto di te, per una volta. Più crudele.
Probabilmente, quel giorno, non le guardai neppure le tue mani: quando ci presentarono ricordo di aver studiato il tuo viso, di aver lanciato occhiate rapide sui tuoi fianchi. Di aver desiderato strusciare il pollice contro la tua guancia liscia.
Ma poi veniva la notte, ogni giorno.
E improvvisamente le tue mani erano ovunque, ritratte nella forma allungata delle dita. Disegnate sulle linee del mio corpo.
Ossa, nervi e vene.
La consapevolezza di ogni movimento.
E non avevo ancora visto come stringi i pugni, Sho. Non avevo mai sentito il tuo tocco su di me. Dentro di me.
Iniziò tutto lì: dalle tue mani.
E sono certo che quella delle tue mani fu anche l’ultima immagine di te, lontano dal lavoro, che ti rubai, prima che tu te ne andassi. Mentre serravi le dita attorno al manico del borsone, mentre chiudevi la porta.
‘Fanculo’, ho pensato.
Esattamente come i giorni dopo, negli spogliatoi, quando mi sono accorto di non riuscire più nemmeno a passare davanti alle docce senza provare i brividi.
Avrei dovuto preoccuparmi degli Arashi, in realtà; di ciò a cui stavo – stavamo – andando incontro.
Ma ero completamente spiazzato da quella novità. L’asse della mia percezione aveva subito una rotazione, e ormai ritrovare l’equilibrio pareva impossibile. I corpi, che fino a quel momento erano stati semplice carne, erano diventati vuoti allo stomaco. I tocchi si erano trasformati in vertigini.
Non avevo esperienza. Non mi era mai capitato di dover gestire un’attrazione così forte, era come se non sapessi più dove poggiare gli occhi. Il baricentro si era completamente spostato su di te.
Ricordo la prima volta che mi hai invitato a casa tua, quando ormai avevo già compiuto vent’anni.
Guardavo tuo padre, lo sentivo parlare, ma faticavo a slegare la mia attenzione dal punto in cui eri seduto tu.
Sulla poltrona.
Alla mia destra.
La sensazione pazzesca di percepire la tua presenza.
Persino il modo in cui tuo padre fumava mi dava alla testa, ero come ubriaco. Avevo la gola secca. Avevo sete.
“Ti porto qualcosa da bere? Birra? Vino?”
“Coca-Cola, grazie”
“Coca-Cola?” sopracciglio inarcato.
“Mamma, abbiamo della Coca-Cola in casa?”
“Prova a guardare, forse ne ha comprata tuo fratello. Non saprei”
Avrei voluto sotterrarmi, lì e subito.
La diversità del tuo mondo era una trappola costante. Avrei voluto conoscere l’alfabeto del tuo linguaggio, allora. Sapermici accordare.
Non ricordo quand’è che ho iniziato a comprare Coca-Cola solo per non comprare vino, quasi a voler esaltare la mia diversità per semplice ripicca.
Avrei dato la vita per bere al tuo bicchiere, Sho. Sentire i tuoi stessi sapori, posare le labbra sull’impronta delle tue. Ma non ho mai ceduto di un millimetro, nemmeno quando stavo male. Nemmeno mentre ti perdevo.
Ed è stata una guerra durata anni.
Stare al tuo passo per camminare più lentamente, o più veloce. In certi giorni ero così stanco che avrei solo voluto arrendermi, alzare le braccia e lasciare che mi colpissi. Lasciarti andare, una volta per tutte.
“Allora, come sta andando l’università?”
“Bene, grazie”
“Stai studiando economia, giusto?”
“Sì”
“Ce l’hai l’aria da economo, in effetti”
“Me lo dicono spesso. Non che sia un gran complimento, ma...”
“No, ma, non era inteso... era nel senso di...”
“Ecco, ragazzi. Vino per Sho e Coca-Cola per Aiba-kun. Ce n’era mezza bottiglia nello scaffale, spero non sia troppo sgasata”
Bevvi tutto d’un fiato.
Non avevo mai avuto grandi difficoltà a sostenere una conversazione, anzi, il problema era che di solito chiacchieravo a ruota libera. Ed è tuttora così.
Con te, invece, non sapevo cosa dire.
Le mie amicizie spaziavano dai ragazzi conosciuti a scuola durante l’adolescenza a quelli conosciuti nell’agenzia. Non riuscivo quasi a concepirlo, qualcuno che studiasse economia.
E anche dopo, Sho, quando ti lasciavo solo in cucina con i tuoi libri per andare fuori con degli amici... anche quando i tuoi libri li spazzavo via con gesti rabbiosi. Anche allora, avrei voluto seguirti.
Avere il tuo cervello per capire quei testi, scambiare con te una conversazione che tu potessi trovare interessante, stimolante. Essere io, quello che ti accendeva la mente.
Io certe cose non potevo dartele, e mai potrò.
Dentro di me non ho che istinto e passione, nulla di particolarmente interessante. Tu, con la tua scienza, sei sempre stato molti passi avanti a me.
Avrei dovuto capire che le premure che mi riservavi non derivavano da sfiducia nei miei confronti, che non mi hai mai trattato come un bambino. Ma eri diverso. E io, quella sera in cui visitai casa tua per la prima volta, reagii nell’unico modo che conoscevo: innalzando le barriere. Fingendo la tua stessa sicurezza, guardandoti fisso negli occhi.
Ho sempre creduto che un giorno mi avresti lasciato. Non necessariamente per un altro uomo, ma per altri stimoli, per qualcosa che sapesse coinvolgerti appieno.
E pur di tenerti con me, ho sempre cercato di nasconderti ciò che ero. Per dimostrarti di essere adulto, maturo. All’inizio credevo che mi avresti smascherato subito: sarebbe stato molto facile, per te.
Invece i giorno passarono, e passarono gli anni; e le mie maschere reggevano.
Ringraziavo spesso il cielo per tanta fortuna, e solitamente lo facevo quando restavo sveglio di notte solo per guardarti dormire accanto a me. Ti sfioravo le labbra piene con un pollice, ti sussurravo parole che non avrei detto nemmeno in punto di morte, se tu fossi stato sveglio per ascoltarmi.
Ma spesso era frustrazione, rabbia, rancore. Perché il fatto che tu non mi vedessi significava solo che non fossi interessato a vedermi, Sho. Tu, che trascorrevi serate ad analizzare un paragrafo dei tuoi libri, non avevi alcun interesse a studiare me.
E molte volte sono stato sul punto di fare qualcosa di estremo, solo per far sì che tu mi prestassi attenzione: saltare sul tavolo e mettermi a ballare come un matto non sarebbe stato molto diverso dal passarmi un coltello sul polso mentre sbucciavo la frutta.
Tanti anni così ucciderebbero qualunque relazione. A noi, invece, hanno legato per l’eternità.
Genere: angst, yaoi
Rating: PG-13
Pairing: Sakuraiba
Disclaimer: queste persone non mi appartengono, e anche se mi appartenessero li farei vivere felici e contenti >.<
Note: Dopo 'Non è una fanfiction', avevo deciso che non avrei mai più scritto roba che non avesse un lieto fine. Invece... ci sono ricascata T_T
E' divisa in 4 parti, due dal punto di vista di Sho, due da quello di Aiba. E le frasi che trovate all'inizio cono tratte dalla canzone 'Desire' di Baru e Yasu dei Kanjani8
Parti precedenti: Prima parte
“Tsuretette doko e demo atashigoto
Kitsuku daite anata dake de yogoshite”
“Take me anywhere, all of me
Hold me tightly, you are the only one to mess me up”
Kitsuku daite anata dake de yogoshite”
“Take me anywhere, all of me
Hold me tightly, you are the only one to mess me up”
AIBA
La notte dopo le prime prove di gruppo con gli Arashi, non riuscii a dormire.
Sentivo la pioggia picchiare sui vetri della finestra e guardavo la luce bluastra che si addensava tra le pieghe delle lenzuola. Guardavo le mie mani: i pugni aperti.
Non mi ero mai sentito così.
Durante le prove, quel giorno, avevo cercato semplicemente di non pensare. A diciassette anni distrarsi non è particolarmente difficile, basta concentrare le energie sui propri movimenti, muoversi più velocemente. Con l’illusione di poter lasciare indietro tutto il resto.
Mi ero infilato direttamente sotto la doccia, quando ero rientrato negli spogliatoi, e mentre l’acqua mi scorreva sul viso me ne resi conto chiaramente, che quella fretta era per non dover sentire, per non dover vedere.
Non riuscivo più ad orientarmi.
Non riuscivo a capire per quale ragione i corpi dei miei compagni mi facessero improvvisamente un effetto così strano. Mi ritrovavo a guardarli in maniera diversa, come se li vedessi per la prima volta.
E per la prima volta gli occhi indugiavano sulle curve dei muscoli acerbi, sulle scie umide che le gocce di sudore disegnavano sulle spalle, sulle vene delle braccia.
Vorrei poterti dire che l’attrazione per te fu consapevole, in quei primi giorni. Ma in realtà fu un terremoto sotterraneo, l’ulteriore sconvolgimento di un terreno già minato da ciò che ci stava succedendo intorno. Già troppo instabile.
Forse se quelli fossero stati giorni normali –se gli Arashi non fossero mai esistiti, se non fossimo stati costretti a vederci quasi ogni giorno, per tanti anni – mi sarei limitato a registrare il tuo sguardo e a immaginarlo nel bianco umido delle lenzuola. Magari per qualche minuto, il tempo che concedevo di solito alle mie fantasie.
Ma poi avrei continuato la mia vita normale. E tu saresti sbiadito nello sfondo, Sho.
A volte mi domando come io abbia fatto ad aspettare anni prima di vederti trasformare in fuoco, quando già il tuo ingresso nella mia vita è stato come un flusso d’acqua. Acqua che filtra dalle fessure, che scivola sulle cose.
La mia riluttanza ad avvicinarti, inizialmente, derivava essenzialmente dalla paura della superficie piatta del mare. E dell’erosione lenta che può scavare l’acqua. Del nulla in cui trasforma anche la roccia.
Ricordo che fu quella, la sensazione più nitida dei primi giorni: annegare.
Annaspare per restare a galla, distogliere lo sguardo da quello frenetico della gente intorno a me per non richiamare alla mente la calma del tuo.
Ti pensavo per contrasto, paradossalmente.
Perché eri così diverso dalle persone che mi circondavano, che la loro presenza ti evocava, quasi.
I corpi scolpiti degli altri uomini. E il tuo affondato in una maglia troppo grande la prima volta che ci siamo visti.
Le grida assordanti della gente. E il tuo parlare a voce bassa, le tue pause di silenzio.
La sensazione che avrei potuto chiederti qualunque cosa, e che a qualunque cosa avresti saputo rispondere.
Allora non potevo certo immaginare che sarebbe stato proprio per quelle tue risposte fottutamente coerenti, che ti avrei odiato tanto. Non potevo sapere che avrei odiato tanto me stesso per tutte quelle domande ingenue.
E non potevo sapere che, di nascosto, avrei fotografato tante volte le tue mani, solo per poterne stracciare le stampe. Per sentirmi più adulto di te, per una volta. Più crudele.
Probabilmente, quel giorno, non le guardai neppure le tue mani: quando ci presentarono ricordo di aver studiato il tuo viso, di aver lanciato occhiate rapide sui tuoi fianchi. Di aver desiderato strusciare il pollice contro la tua guancia liscia.
Ma poi veniva la notte, ogni giorno.
E improvvisamente le tue mani erano ovunque, ritratte nella forma allungata delle dita. Disegnate sulle linee del mio corpo.
Ossa, nervi e vene.
La consapevolezza di ogni movimento.
E non avevo ancora visto come stringi i pugni, Sho. Non avevo mai sentito il tuo tocco su di me. Dentro di me.
Iniziò tutto lì: dalle tue mani.
E sono certo che quella delle tue mani fu anche l’ultima immagine di te, lontano dal lavoro, che ti rubai, prima che tu te ne andassi. Mentre serravi le dita attorno al manico del borsone, mentre chiudevi la porta.
‘Fanculo’, ho pensato.
Esattamente come i giorni dopo, negli spogliatoi, quando mi sono accorto di non riuscire più nemmeno a passare davanti alle docce senza provare i brividi.
Avrei dovuto preoccuparmi degli Arashi, in realtà; di ciò a cui stavo – stavamo – andando incontro.
Ma ero completamente spiazzato da quella novità. L’asse della mia percezione aveva subito una rotazione, e ormai ritrovare l’equilibrio pareva impossibile. I corpi, che fino a quel momento erano stati semplice carne, erano diventati vuoti allo stomaco. I tocchi si erano trasformati in vertigini.
Non avevo esperienza. Non mi era mai capitato di dover gestire un’attrazione così forte, era come se non sapessi più dove poggiare gli occhi. Il baricentro si era completamente spostato su di te.
Ricordo la prima volta che mi hai invitato a casa tua, quando ormai avevo già compiuto vent’anni.
Guardavo tuo padre, lo sentivo parlare, ma faticavo a slegare la mia attenzione dal punto in cui eri seduto tu.
Sulla poltrona.
Alla mia destra.
La sensazione pazzesca di percepire la tua presenza.
Persino il modo in cui tuo padre fumava mi dava alla testa, ero come ubriaco. Avevo la gola secca. Avevo sete.
“Ti porto qualcosa da bere? Birra? Vino?”
“Coca-Cola, grazie”
“Coca-Cola?” sopracciglio inarcato.
“Mamma, abbiamo della Coca-Cola in casa?”
“Prova a guardare, forse ne ha comprata tuo fratello. Non saprei”
Avrei voluto sotterrarmi, lì e subito.
La diversità del tuo mondo era una trappola costante. Avrei voluto conoscere l’alfabeto del tuo linguaggio, allora. Sapermici accordare.
Non ricordo quand’è che ho iniziato a comprare Coca-Cola solo per non comprare vino, quasi a voler esaltare la mia diversità per semplice ripicca.
Avrei dato la vita per bere al tuo bicchiere, Sho. Sentire i tuoi stessi sapori, posare le labbra sull’impronta delle tue. Ma non ho mai ceduto di un millimetro, nemmeno quando stavo male. Nemmeno mentre ti perdevo.
Ed è stata una guerra durata anni.
Stare al tuo passo per camminare più lentamente, o più veloce. In certi giorni ero così stanco che avrei solo voluto arrendermi, alzare le braccia e lasciare che mi colpissi. Lasciarti andare, una volta per tutte.
“Allora, come sta andando l’università?”
“Bene, grazie”
“Stai studiando economia, giusto?”
“Sì”
“Ce l’hai l’aria da economo, in effetti”
“Me lo dicono spesso. Non che sia un gran complimento, ma...”
“No, ma, non era inteso... era nel senso di...”
“Ecco, ragazzi. Vino per Sho e Coca-Cola per Aiba-kun. Ce n’era mezza bottiglia nello scaffale, spero non sia troppo sgasata”
Bevvi tutto d’un fiato.
Non avevo mai avuto grandi difficoltà a sostenere una conversazione, anzi, il problema era che di solito chiacchieravo a ruota libera. Ed è tuttora così.
Con te, invece, non sapevo cosa dire.
Le mie amicizie spaziavano dai ragazzi conosciuti a scuola durante l’adolescenza a quelli conosciuti nell’agenzia. Non riuscivo quasi a concepirlo, qualcuno che studiasse economia.
E anche dopo, Sho, quando ti lasciavo solo in cucina con i tuoi libri per andare fuori con degli amici... anche quando i tuoi libri li spazzavo via con gesti rabbiosi. Anche allora, avrei voluto seguirti.
Avere il tuo cervello per capire quei testi, scambiare con te una conversazione che tu potessi trovare interessante, stimolante. Essere io, quello che ti accendeva la mente.
Io certe cose non potevo dartele, e mai potrò.
Dentro di me non ho che istinto e passione, nulla di particolarmente interessante. Tu, con la tua scienza, sei sempre stato molti passi avanti a me.
Avrei dovuto capire che le premure che mi riservavi non derivavano da sfiducia nei miei confronti, che non mi hai mai trattato come un bambino. Ma eri diverso. E io, quella sera in cui visitai casa tua per la prima volta, reagii nell’unico modo che conoscevo: innalzando le barriere. Fingendo la tua stessa sicurezza, guardandoti fisso negli occhi.
Ho sempre creduto che un giorno mi avresti lasciato. Non necessariamente per un altro uomo, ma per altri stimoli, per qualcosa che sapesse coinvolgerti appieno.
E pur di tenerti con me, ho sempre cercato di nasconderti ciò che ero. Per dimostrarti di essere adulto, maturo. All’inizio credevo che mi avresti smascherato subito: sarebbe stato molto facile, per te.
Invece i giorno passarono, e passarono gli anni; e le mie maschere reggevano.
Ringraziavo spesso il cielo per tanta fortuna, e solitamente lo facevo quando restavo sveglio di notte solo per guardarti dormire accanto a me. Ti sfioravo le labbra piene con un pollice, ti sussurravo parole che non avrei detto nemmeno in punto di morte, se tu fossi stato sveglio per ascoltarmi.
Ma spesso era frustrazione, rabbia, rancore. Perché il fatto che tu non mi vedessi significava solo che non fossi interessato a vedermi, Sho. Tu, che trascorrevi serate ad analizzare un paragrafo dei tuoi libri, non avevi alcun interesse a studiare me.
E molte volte sono stato sul punto di fare qualcosa di estremo, solo per far sì che tu mi prestassi attenzione: saltare sul tavolo e mettermi a ballare come un matto non sarebbe stato molto diverso dal passarmi un coltello sul polso mentre sbucciavo la frutta.
Tanti anni così ucciderebbero qualunque relazione. A noi, invece, hanno legato per l’eternità.
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Mah... diciamo che si vede già come finisce: si sono mollati T_T Queste 4 parti parleranno un pochino del 'prima', diciamo
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